Pubblichiamo il testo integrale dell’intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella al Dialogo di Alto Livello italo-tedesco
Caro Presidente Gauck, grazie per aver voluto essere con noi stasera, per la chiusura dei lavori della seconda edizione del “Dialogo di Alto Livello italo-tedesco” e grazie per le parole da Lei pronunciate, piene di amicizia.
Desidero ringraziare anche il Sindaco Fassino e la città di Torino che ha deciso di rinnovare la ospitalità per questo incontro.
Rivolgo un cordiale saluto ai rappresentanti dei Governi della Germania e dell’Italia, ai Presidenti dei centri di ricerca “ISPI” e “DGAP”, ai relatori, ai patrocinatori che hanno sostenuto l’organizzazione di questa iniziativa, e a tutti i presenti.
Il fatto che, a circa un anno e mezzo dal primo incontro, si torni a riflettere – anzi, meglio, a dialogare – sul rapporto italo-tedesco, sulle sue potenzialità e sul suo valore per l’Europa, costituisce prova evidente della ricchezza delle nostre relazioni.
Esse – che affondano le proprie radici nella storia – si sono fortemente caratterizzate, a partire dal secondo dopoguerra, per il loro ruolo positivo nello sviluppo della costruzione europea.
La comunità di Paesi liberi che si riconosce nella Unione Europea deve molto alla capacità che Germania e Italia hanno avuto di voltare pagina dopo le avventure totalitarie e di affermare, i principi della pace e della cooperazione internazionale.
Una relazione, quella italo-tedesca, dunque, che va ben al di là del dato – pur estremamente rilevante – dell’interscambio bilaterale e della complessità dei nostri sistemi produttivi, che fanno di Germania e Italia partners inscindibili.
Vale per l’industria. Non c’è infatti produzione di un Paese che non trovi complementarietà nell’altro.
Vale per la finanza e per i servizi.
Vale per la cultura.
Questa percezione è confortata dalle valutazioni, che abbiamo appena ascoltato, dei relatori dei gruppi di lavoro, che hanno affrontato temi non solo delicati per l’intero Continente, ma sui quali si gioca il futuro stesso dell’integrazione europea: il mercato digitale, la politica estera dell’Unione, la sicurezza, le migrazioni.
Consentitemi, quindi, di soffermarmi brevemente sui tre temi dell’incontro, sui quali i relatori hanno appena esposto e riassunto le diverse posizioni emerse nel dialogo.
Le soluzioni che – lavorando insieme – riusciremo a individuare per regolamentare, al livello europeo, il mercato digitale, potranno produrre un ulteriore rafforzamento del mercato unico e, di conseguenza, una nuova poderosa spinta verso l’integrazione continentale, replicando un meccanismo virtuoso che è stato, per anni, alla base del tradizionale “approccio funzionale” al cammino verso l’unità europea.
Si tratta, anche in questo caso, di scrivere regole di cui l’Europa ha bisogno. Regole che devono permetterci non soltanto di mantenere inalterato l’obiettivo di un mercato unico efficiente, in un settore delicatissimo per il nostro futuro, ma anche di dare all’Unione gli strumenti per confrontarsi efficacemente con gli altri grandi blocchi economico – commerciali del pianeta. Inoltre, al di là dell’interesse economico così grande, sostenere la cultura del digitale esprime anche un altro significato, forse più profondo.
Il digitale rappresenta difatti, già da tempo, uno strumento basilare delle nuove generazioni. Permea profondamente il loro stesso modo di vivere e di esprimersi. Contribuisce in buona misura a plasmarlo.
Tra le nostre urgenze più pressanti vi è, certamente, quella di consolidare la consapevolezza del valore della Unione europea nei confronti dei giovani: dobbiamo fare in modo che l’Europa rimanga al passo della “generazione digitale”, ne accompagni attivamente la crescita e renda i nostri giovani protagonisti attivi, non solo fruitori e consumatori.
Se saremo all’altezza di questo compito l’Europa potrà, come tutti auspichiamo, essere protagonista in un settore sempre più cruciale per l’economia, l’occupazione e la ricerca. Qualora, invece, interessi ed egoismi impedissero di elaborare, e applicare, regole coraggiose, che diano la possibilità di sviluppare un’autentica Europa digitale, ne conseguirebbe un segnale estremamente negativo per la nostra coesione, per la nostra capacità complessiva di rimanere al passo con i tempi e di competere nell’economia globale.
Eppure sappiamo, e le conclusioni degli altri due panel lo rendono evidente, come l’approccio “funzionale” all’integrazione – che tanto ha dato e tanto può ancora darci – resti componente necessaria ma, di per sé, non più sufficiente per garantire all’Europa la coesione indispensabile per affrontare questo straordinario cambiamento d’epoca.
La pressione migratoria, le crisi aperte alle porte dell’Europa, le instabilità in alcune regioni dell’Africa e del Medio Oriente, il flagello del terrorismo; tutti questi fenomeni ci indicano chiaramente che occorre fare di più, e che occorre farlo attraverso uno sforzo realmente corale.
Quando la prima edizione di questo Dialogo ha avuto luogo, nel dicembre 2014, il focus della discussione ruotava ancora, essenzialmente, attorno al governo dell’economia, sul binomio disciplina di bilancio – flessibilità e, dunque, sviluppo – occupazione.
Non possiamo certo affermare che in questo periodo si sia riusciti a individuare una soluzione stabile a quello che rimane, per molti versi, un “nodo” non ancora risolto nell’ambito dell’Eurozona, anche se sono state compiute alcune scelte positive, e tra queste certamente va annoverato l’indirizzo seguito dalla Banca centrale europea. Ora la credibilità della risposta dell’Unione si misurerà sulla concreta operatività del Piano Juncker per gli investimenti e della Comunicazione della Commissione sulla flessibilità. E si misurerà sui passi avanti negli sviluppi del Rapporto dei cinque Presidenti.
L’agenda politica dell’Europa è stata dominata, negli ultimi anni, dalle conseguenze della crisi: adesso questo tema si intreccia, e va affrontato, insieme alla minaccia del terrorismo e alle migrazioni, questioni percepite come ancora più insidiose per i nostri Paesi e per la nostra Unione.
Sono temi che si saldano a problemi irrisolti del passato con un “effetto di accumulazione” dal quale scaturisce, nelle nostre opinioni pubbliche, un senso di sfiducia diffusa nella capacità dei Governi nazionali e dell’Unione Europea nel suo insieme di saper gestire le crisi. Da qui nasce quella tendenza al ripiegamento su se stessi che vediamo serpeggiare nelle nostre società, e che spesso spiana la strada a sentimenti di vario genere, alimentati da paure collettive.
E’ un’illusione pensare che la soluzione consista nel rinunciare a ciò che siamo. Rinunciare, cioè, a principi fondamentali del nostro essere europei, a diritti che abbiamo costruito e che abbiamo il dovere di tutelare, e di diffondere, per noi e per le future generazioni.
Le semplificazioni non producono risposte donee all’ampiezza dei fenomeni che abbiamo di fronte.
Essi hanno, infatti, una dimensione globale, per nulla transitoria, che rischia di travolgere soluzioni ingenuamente “isolazioniste”.
Nessun uomo è un’isola, ammoniva John Donne già nel 1600. (“Ogni uomo è un pezzo del Continente, una parte della Terra…E così non mandare mai a chiedere per chi suona la Campana: Essa suona per te”).
Queste parole, lucide e suggestive, fanno comprendere come ancor meno si possa pensare che siano un’isola i singoli popoli al tempo della globalizzazione.
L’Europa ha garantito decenni di pace e di prosperità, ha assicurato benessere diffuso e un elevato livello di diritti e tutele per i singoli e per le collettività: è nostro dovere far sì che i risultati raggiunti non siano percepiti da taluno come scontati e, soprattutto, che queste conquiste non possano essere messe in discussione.
E’ nostro dovere sottolineare la necessità di agire con lungimiranza, equilibrio e rispetto dei valori fondanti che sono alla base delle nostre Costituzioni e dell’Unione Europea.
E’ questa la situazione nella quale Germania e Italia, Paesi fondatori dell’Unione, oggi si trovano ad operare.
Due Paesi che, anche per aver pagato a caro prezzo la tragica avventura nazionalista, hanno creduto più di altri nell’orizzonte europeo.
Paesi ai quali Adenauer e De Gasperi hanno lasciato in eredità una visione europeistica che abbiamo saputo coltivare negli anni e che oggi, ancora una volta, siamo chiamati a far valere, a far vivere.
Vorrei a questo proposito, a pochi giorni dalla sua scomparsa, ricordare qui l’afflato europeo che ha caratterizzato tutta la vita e la carriera politica di Hans-Dietrich Genscher, che rimarrà, nella memoria di tutti noi, tra i padri nobili dell’Europa.
Avere “senso dell’eredità” e, dunque, di chi siamo, deve sapersi tradurre, oggi, nell’assunzione di una nuova responsabilità, anzitutto nei confronti dei cittadini europei, ma anche del mondo che guarda l’Europa e che ha bisogno della civiltà europea.
Lasciare senza risposte le migliaia di donne, uomini e bambini che fuggono da guerre, violenze, devastazioni e che oggi bussano alle porte dell’Europa, non è possibile.
L’inedita questione migratoria va affrontata con l’intelligenza del senso della realtà: tenendo insieme l’accoglienza di chi ha diritto d’asilo, l’integrazione di chi viene a lavorare nelle nostre società e così contribuisce al nostro benessere, la fermezza nel contrastare i trafficanti di uomini.
Registrazione, asilo, ricollocazione e rimpatri per chi non ha diritto all’asilo si tengono insieme: non può esserci registrazione per quanto completa e scrupolosa, che possa essere efficace senza effettiva ricollocazione e senza accordi di rimpatrio che soltanto l’Unione Europea può gestire proficuamente con i Paesi di origine.
A questa umanità in movimento, spesso resa schiava da vili mercanti, dobbiamo, in qualunque caso, dare risposte all’altezza dei nostri valori. Questi affermeranno la loro autenticità e la loro autorevolezza solo se sapranno riscuotere riconoscenza anche per il trattamento prestato a chi è in difficoltà e si tradurranno in un concreto, efficace programma di aiuto per la pacificazione e per lo sviluppo dei Paesi da cui nascono i flussi migratori, sapendo che nessuna moltitudine di persone lascia il proprio Paese se può vivervi in pace e serenità.
I programmi di aiuto, concreti ed efficaci, per quei Paesi vanno posti in primo piano, sia perché è giusto sia per fermare all’origine i grandi flussi migratori ed evitare che divengano sempre più imponenti e ingovernabili.
Soltanto così si può vincere la grande sfida di civiltà a cui siamo chiamati. Germania e Italia sentono questa responsabilità e hanno valori comuni che la sorreggono. Considero significativo che un film emblematico e intenso come “Fuocammare” di Gianfranco Rosi, abbia ricevuto, a Berlino, un riconoscimento così prestigioso come l’Orso d’oro.
Di fronte a un’opinione pubblica comprensibilmente frastornata, Germania e Italia sono dunque chiamate a riaffermare con forza, sulla base della loro tradizione di profondo europeismo, che al processo di progressiva integrazione non c’è alternativa.
Non abbiamo un “piano B”. Nessuno può realisticamente vantare un “piano B”, fondato su una presunta via “nazionale” alla soluzione dei problemi che interpellano il nostro Continente. Anzi, possiamo dire che laddove l’Europa ha mancato in solidarietà nell’accoglienza dei profughi, o nella sua politica estera, o in efficacia nel contrasto alle bande di estremisti assassini, questo è avvenuto per una carenza di Europa e non per un suo eccesso. Più Europa non vuol dire soltanto più solidarietà, ma anche più sicurezza. Questo va sottolineato rispetto alla realtà con cui confrontarci. Se si indebolisce il tessuto comune europeo, se si logora l’ideale di Unione, diventiamo tutti più vulnerabili.
Non basteranno i muri e le barriere a proteggerci, se l’Europa non farà passi avanti come progetto comune. Abbiamo lavorato settant’anni per abbattere i muri che dividevano l’Europa: non lasciamo che rinascano, creando diffidenze e tensioni pericolose laddove, al contrario, servono coesione e fiducia. Le barriere che dividessero l’Europa sarebbero una zavorra che ne appesantirebbe il cammino. Sono lieto che il rappresentante della Commissione europea ieri abbia pronunciato parole chiare su quanto sta avvenendo al Brennero.
Tornare indietro da Schengen sarebbe un atto di autolesionismo, per tutti.
Germania e Italia, pur registrando una generale e profonda sintonia su una grande quantità di temi, ovviamente esprimono, su qualche specifico punto dell’agenda europea e internazionale, anche opinioni talvolta diverse.
Tuttavia i nostri Paesi non hanno mai fatto ricorso a politiche di rifiuto del dialogo. Al contrario, l’approccio è sempre stato costruttivo, teso a individuare i punti di equilibrio e a coagulare intorno ad essi il consenso di altri Paesi membri della Ue, alla ricerca di posizioni mai imposte ma sempre condivise. Questo è il metodo di lavoro che Germania e Italia hanno sempre proposto a livello europeo, più che mai prezioso quando, come oggi, l’obiettiva complessità delle situazioni contribuisce a rendere più ardua l’individuazione di soluzioni sostenibili e di lungo periodo.
D’altra parte, la voce dei cittadini europei, che si è levata alta in questi giorni per chiedere di combattere la barbarie del terrorismo, rappresenta la più viva testimonianza di una pressante domanda di unità dell’Europa che non può rimanere inascoltata e deve anzi ricevere coerente e rapida risposta.
Occorre rafforzare la collaborazione per la sicurezza tra gli Stati dell’Unione, superando resistenze alla necessità di mettere in comune capacità e conoscenze.
L’Unione, peraltro, ha bisogno di intervenire sulle cause profonde dell’instabilità. Ha bisogno di “esprimersi con una sola voce”, autorevolmente, sviluppando una politica estera coerente con i propri valori fondanti. Vivere sicuri significa avere alle proprie frontiere popoli che, in pace, possano vivere e progredire.
Dall’Iraq alla Siria, dalla Libia all’Africa sub-sahariana, si avverte il bisogno di un’Europa che sappia agire assumendosi le proprie responsabilità e favorendo le necessarie convergenze internazionali, in modo da contrastare l’instabilità e favorire soluzioni durature delle crisi in atto.
Nel mondo di oggi è in corso un processo di crescente regionalizzazione.
Macro-aree sempre più strutturate sono e saranno chiamate ad assumere crescenti responsabilità nella gestione degli equilibri planetari.
E’ un fenomeno che nasce e si sviluppa guardando con interesse – spesso con ammirazione – alla nostra esperienza, al modello realizzato dall’Unione Europea.
Sarebbe paradossale che proprio noi europei lanciassimo, con i nostri comportamenti, messaggi che indeboliscono questa aspettativa: la domanda di Europa unita, e del modello che essa rappresenta, viene da noi e da fuori di noi.
Lo constatiamo, ad esempio, guardando ai Paesi dei Balcani occidentali, che vedono nella prospettiva europea il naturale sbocco di un percorso di progressivo avvicinamento e adattamento agli standard comunitari.
E’ un percorso al quale l’Unione deve continuare a prestare massima attenzione e considerazione e che, in nessun caso, può essere interrotto.
La domanda di Europa viene anche da Continenti a noi vicini, come ho potuto personalmente constatare nel corso del mio recente viaggio in Etiopia e Camerun e della mia visita all’Unione Africana. Si tratta di Paesi centrali per gli equilibri del Corno d’Africa l’uno, del Golfo di Guinea l’altro.
Assicurare risposta a questa domanda di Europa non tocca soltanto alle istituzioni, alla vita politica. È importante, ma non tocca soltanto ai governi.
Come ha fatto poc’anzi il Presidente Gauck, ai protagonisti della vita economica e sociale, tedeschi e italiani, riuniti in questa occasione, mi permetto di segnalare una missione: abbiamo bisogno di “Mehr Europa” – Più Europa.
Questa è la nostra comune grande responsabilità.
E’ con questo auspicio che rinnovo i miei ringraziamenti a tutti i presenti ma, soprattutto e ancora una volta, al Presidente Gauck, per aver onorato, con la sua presenza, la seconda edizione del Dialogo di Alto Livello italo-tedesco e per il suo costante e illuminato impegno al servizio della Germania e della comune casa europea.