Internati militari, non prigionieri di guerra
Dopo l’armistizio dell’8 settembre l’esercito italiano, lasciato senza ordini si dissolse.
Gli 810mila militari italiani catturati dai tedeschi sui vari fronti di guerra furono considerati disertori oppure franchi tiratori e quindi giustiziabili nel caso avessero opposto resistenza (in molti casi gli ufficiali vengono trucidati, come a Cefalonia).
Fino al 20 settembre 1943 furono classificati prima prigionieri di guerra, poi internati militari (Imi), con una decisione unilaterale accettata dalla Repubblica Sociale Italiana (Rsi) che li considerava propri militari in attesa di impiego. Hitler non li riconobbe come prigionieri di guerra (Kgf) e per poterli “schiavizzare” senza controlli, li classificò come “internati militari” (Imi), categoria ignorata dalla Convezione di Ginevra sui Prigionieri del 1929.
Degli 810mila militari italiani catturati, 94mila optarono per la RSI o le SS italiane, come combattenti (14mila) o ausiliari (80mila). Dei 716mila Imi restanti, durante l’internamento, 43mila scelsero i lager come combattenti della Rsi e 60mila furono ausiliari (per un quadro più dettagliato delle cifre, vedi il saggio di Sommaruga “1943/45. Schiavi di Hitler“). Quindi, oltre 600mila Imi, nonostante le sofferenze e il trattamento disumano subito nei lager, rimasero fedeli al giuramento alla Patria e scelsero di resistere e dicono “no” alla Rsi.
Il trattamento disumano
Gli internati – rinchiusi nei lager con scarsa assistenza e senza controlli igienici e sanitari – a differenza dei prigionieri di guerra furono privati della tutela internazionale e furono obbligati arbitrariamente e unilateralmente al lavoro forzato (servizi ai lager, manovalanza, edili, sgombero macerie, ferrovieri, genieri, o al servizio diretto della Wehrmacht e della Luftwaffe o di imprenditori e contadini).
I “lavoratori liberi”
Con gli accordi Hitler-Mussolini del 20 luglio 1944 gli internati furono smilitarizzati d’autorità dalla Rsi e gestiti come lavoratori liberi civili. In realtà si tratta di lavori forzati etichettati come lavoro civile volontario/obbligato. A quella data i superstiti erano 495mila, mentre in 50mila morironod’inedia, tbc e violenza. Alla fine della guerra gli ex-Imi fuori dai lager come “lavoratori liberi” erano 495mila, altri 14mila invece e erano rimasti nei lager.