Intervista a Susanna Maruffi, presidente dell’Associazione nazionale ex deportati nei campi nazisti (Aned) e figlia di Ferruccio.
Suo papà è scomparso da pochi mesi. Che ricordo ha di lui?
Ho avuto un legame fortissimo con mio padre. Il ricordo che ho di lui è di una persona molto buona, profondamente e dolce. Era molto indulgente nei confronti del mondo.
Le sofferenze che ha subito, l’orrore della quotidianità a cui è stato costretto nel lager non hanno cambiato il suo carattere?
No, un po’ perché mio papà aveva oltre questa bontà d’animo una vena molto ironica e questo, credo, lo abbia aiutato ad affrontare la vita. Non ha mai fatto pesare la sua malinconia sugli altri.
Intende le persone che gli stavano vicino?
Sì.
Dunque era una persona speciale?
Per me sì.
Beh, penso in generale perché riuscire a mantenere questo candore di animo non è da tutti dopo aver visto e subito cose così terribili.
Infatti ciò che ha cercato di fare, soprattutto, nei suoi interventi nelle scuole, a cui ha sempre tenuto di più, era non far passare un’idea di rancore o di odio. Ciò che per lui contava era che l’odio non prendesse il sopravvento, lo riteneva una sconfitta.
Suo papà parlava di perdono?
Non di perdono in senso un po’ retorico. Non mai ha parlato di perdono, ma di assenza di odio, che è diverso. Il perdono deve passare attraverso il riconoscimento della propria colpa da parte di chi l’ha commessa e questo non c’è stato perché non vi è mai stata una dichiarazione di ammissione di colpa da parte di chi ha aderito al nazismo.
Quale eredità morale ha lasciato suo padre?
Sicuramente mantenere l’impegno di testimoniare quanto è successo perché resti un monito. Fatti così gravi di intolleranza e sopraffazione non si devono ripetere, almeno dobbiamo contribuire a che non si ripetano. Ha sempre agito affinché si sviluppasse una coscienza diversa, di rispetto dell’uomo della sua dignità, di non violenza, di non sopraffazione. Questa è la sua eredità: essere il più possibile buoni e ben disposti verso l’umanità.
Suo papà ha ideato e organizzato viaggi nei campi di concentramento che, ormai da anni, sono diventati un’attività che l’associazione Terra del Fuoco organizza con le scuole.
Sì, è uno dei progetti che mio papà ha voluto fortemente. Soprattutto pensava che bisognasse parlare di questi valori ai giovani, trasmettere loro il ricordo di storie che sono accadute, di quanto è successo. Il modo migliore per farlo era andare nei luoghi dove erano accadute quelle atrocità, andare a vedere con i propri occhi, formare una coscienza nei giovani, sempre però con un taglio non drammatico. Come le dicevo, mio padre non ha mai voluto sconvolgere i giovani o terrorizzarli. Nella narrazione degli eventi doveva essere chiaro che per resistere al male fosse importante una solidarietà collettiva.
Dunque il Treno della Memoria nasce con questo intento e Terra del Fuoco ha collaborato con suo papà?
Certo mio papà ha collaborato con l’associazione.
Parlando di solidarietà e di amicizia, corre alla mente un nome, Primo Levi. Quando è nato questo sodalizio?
Dopo il ritorno a casa dai lager. Prima non si conoscevano. Si sono incontrati come persone che sono sopravvissute alla deportazione.
Da cosa è nato il legame tra suo padre e lo scrittore torinese?
Mio padre aveva una profonda ammirazione per Primo Levi, lo riteneva il testimone principale anche per il suo ruolo simbolico. L’amicizia, secondo me, nasceva da questo comune senso di appartenenza e di solitudine.
Dopo la guerra per chi era sopravvissuto era molto difficile farsi capire da chi non aveva vissuto un’esperienza simile e questo generava in tutti loro un senso di solitudine. Per quanto cercassero di far capire, spiegare e raccontare questa esperienza era talmente grave che quasi non erano creduti. Penso che l’origine della loro amicizia sia stato questo comune sentirsi un po’ soli in questa situazione. Forse Levi aveva una personalità ancora più malinconica del suo amico e forse la vena di ironia che aveva mio papà, lo faceva apparire più scanzonato. Ma il sentimento comune era forse quello che le dicevo prima.
La loro amicizia durò fino alla morte?
Sì, fino alla morte di Primo Levi.
Suo padre come ha vissuto la scomparsa dell’amico?
Credo lo abbia lasciato sgomento.
Suo padre non ha mai detto nulla di questo lutto?
Non particolarmente. Lo ha lasciato molto sconcertato, perché mio padre era un persona molto, molto legata alla vita, anche un po’ al dovere di vivere. Era addolorato per la perdita di un compagno di cui aveva una grande ammirazione.
Suo papà raccontava aneddoti o ricordi dell’esperienza nei lager?
Sì, raccontava molto della sua vita di allora. E ciò che trovavo delicato in lui era il fatto che parlando con noi figlie di queste esperienze cercasse sempre di farlo in un modo che non fosse spaventoso per noi bambine. Questa è sempre stata una sua preoccupazione. Infatti, quando andava nelle classi a narrare la sua storia aveva la preoccupazione di salvaguardare i più piccoli. Per questa ragione ha sempre escluso dai suoi incontri i bambini delle scuole elementari perché aveva un’idea dell’infanzia come di un’età da preservare, da proteggere dall’idea del male e della sofferenza. Dopo gli anni trascorsi nei campi di concentramento era diventato molto protettivo nei confronti dei più piccoli e, dunque, anche delle sue figlie. Le vicende di cui era stato testimone potevano essere, invece, raccontate ai ragazzi più grandi, che avevano la capacità di poterle elaborare.
Raccontava dei rapporti che aveva intrecciato con altri prigionieri?
Parlava di alcune persone con cui aveva avuto legami molto stretti. Ricordava spesso un amico, scomparso da diversi anni, che si chiamava Afro, di Quinto Osano, di Nada di cui stamattina (giovedì 14 gennaio) durante la posa della pietra della memoria (inciampo) hanno letto la poesia a lui dedicata. Poi raccontava, spesso, un fatto che gli era piaciuto molto: l’episodio di un canto di un gruppo di deportati francesi, che a un certo punto, ribellandosi ai capò, si erano messi collettivamente a cantare la Marsigliese, in un impeto di orgoglio non solo nazionale, ma di resistenza. Quando sentiva l’inno nazionale francese lo associava sempre a questo episodio di resistenza collettiva alla deportazione. Ciò che lui amava raccontare erano episodi in cui qualcuno aveva opposto un atteggiamento di resistenza a quello che stava accadendo, che mostrasse la propria dignità, la capacità di resistere individualmente e con gli altri, per essere d’esempio anche agli altri.
Ferruccio Maruffi, testimone della deportazione
Si è spento a 91 anni, il 10 ottobre scorso, Raffaele Maruffi, nome di battaglia Ferruccio, nato il 4 marzo 1924 a Grugliasco, in provincia di Torino.
Fu presidente onorario della Casa della Resistenza di Fondotoce e testimone instancabile del dovere di fare memoria, per impedire che l’oblio allontanasse ricordi e dolore, facendo dimenticare alle nuove generazioni quella stagione di violenza insensata. Nell’ottobre 2005 il Consiglio comunale di Torino gli conferì il “Sigillo Civico”, l’onorificenza che in passato era stata assegnata anche a Norberto Bobbio e ad Alessandro Galante Garrone per il “suo impegno sociale e la passione civile antifascista”.
Di estrazione medio-borghese, la famiglia era di orientamento antifascista, fu disegnatore meccanico. Entrò nella Resistenza nelle formazioni Garibaldi attive in valle di Lanzo. Maruffi fu arrestato a Bracchiello, una frazione del comune di Ceres (Torino) l’8 marzo 1944 nel corso di un rastrellamento e detenuto prima a Lanzo e poi a Torino, alle carceri Nuove.
Trasferito a Bergamo, fu deportato a Mauthausen. Nel lager nazista austriaco fu classificato come Schutzhäftlinge (prigioniero per motivi di sicurezza) e ricevette il numero di matricola 58973. Trasportato prima nei sottocampi di Gusen I,Schwechat e Floridsdorf (Vienna), fu portato nuovamente a Mauthausen e infine a Gusen II. Rientrò in Italia nel giugno del 1945.
Nel dopoguerra partecipò alla fondazione dell’Aned (l’Associazione Nazionale ex Deportati) di cui divenne presidente e intraprese un’intensa opera di testimonianza che prosegui per tutta la vita. Nascono dal suo impegno le iniziative che coinvolgono
gli studenti e l’organizzazione di viaggi nei luoghi della deportazione, dei quali ha scritto in molte occasioni e soprattutto nel volume “Fermo posta Paradiso (Lettere nell’aldilà)”.